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Il fuoco della vendetta

Lunedì 04 Agosto 2014 14:29
Braddock (Pennsylvania). L'operaio Russel Baze (Christian Bale) si alterna tra un lavoro senza prospettive di futuro in un'acciaieria e le cure del padre malato terminale. Suo fratello Rodney (Casey Affleck), dopo quattro anni di servizio militare in Iraq, rimane coinvolto in un giro di  incontri di lotta clandestini e scompare misteriosamente. Davanti all'incapacità della polizia di fornire risposte concrete, Russel si mette privatamente alla ricerca del fratello. Le traccie lo porteranno sulla strada di Harlan DeGroat (Woody Harrelson), spietato boss della malavita locale.
Il sogno americano, propinatoci a partire dal secondo dopoguerra, è definitivamente  fallito e Scott Cooper sembra essersene accorto solo oggi.  Insomma, meglio tardi che mai. Il regista di Crazy Heart mette in scena la storia di un anti-eroe sconfitto della classe operaia americana che si interroga sul senso di giustizia, vendetta e coraggio. Le dinamiche però sono quelle trite e ritrite del rabbioso provincialotto filo repubblicano che, di fronte alla totale inadeguatezza del poliziotto grasso di turno (Forest Withaker), imbraccia il fucile da caccia per farsi giustizia da solo, in nome del più tradizionale dei valori: la famiglia. 
I protagonisti,  simboli del fallimento dello sfavillante sogno americano, sono quelli a cui il proprio paese, “la terra delle opportunità”, ha sempre voltato le spalle; il padre muore di cancro dopo una vita passata in acciaieria, mentre Rodney lotta per non affogare nei ricordi strazianti dell'Iraq e nella condizione di immobilità che gli si pone davanti. 
Tuttavia la rabbia di questa classe subalterna è rabbia di plastica, falsa, artificiosa e secondaria rispetto al vero obiettivo del film, che tenta civilmente di abbellire, ossia,  intrattenimento trasversale made in U.S.A.
Niente a che fare con il disturbante Killer Joe (William Friedkin, 2011), ritratto di un'America dominata dal caos, in cui la violenza dello Stato stupratore si abbatte spietata su una famiglia di redneck texani.  
L'apice massimo del film di Cooper rimane comunque l'omicidio di Rodney per mano  del malvagio DeGroat, consumato con una ritualità da sacrificio umano, mentre le immagini di un cervo appena cacciato e scuoiato da Russel e zio Red si alternano nel montaggio. 
La storia d'amore troncata fra Russel e Lena (Zoe Saldana, invece, è un elemento inserito svogliatamente più per compromesso commerciale che per far fronte a una concreta esigenza narrativa.
Gli attori (da Bale a Dafoe, da Affleck a Harrelson) sono indubbiamente fra i più talentuosi del panorama hollywoodiano contemporaneo, ma le loro perfomance sono irrimediabilmente compromesse da personaggi pensati male in partenza.
È come infatti se a Cooper nulla interessasse veramente, come se tutto gli fosse indifferente. Il risultato è una sceneggiatura insapore dalle deboli ambizioni civili e una messa in scena noiosa e priva di personalità che è valsa a Cooper il premio per la miglior opera prima/seconda al Festival Internazionale del Film di Roma (come se questo fosse mai stato un sinonimo di qualità).
Dopo la crisi economica del 2008, parte dell'industria hollywoodiana sembra propensa a sfornare un numero sempre più rilevante di pellicole che mettono in dubbio lo spietato sistema economico capitalista, sul quale, per altro, sono fondati gli stessi studios.
Inoltre è ormai nota a tutti la propensione delle major cinematografiche americane di grattare il fondo del barile; ma ha veramente senso che Hollywood racconti le condizioni operaie utilizzando le medesime formule con i medesimi risultati di trent'anni fa? Il duello finale fra Bale e Harrelson nell'acciaieria, simbolo del sacrificio operaio, ne è forse il risultato più aberrante. 
 
Il fuoco della vendetta – Ouf of the furnace, prodotto da Leonardo Di Caprio e Ridley Scott, uscirà nelle sale italiane il 27 agosto. Fate voi. 
 
Angelo Santini

Light of my life

Martedì 12 Febbraio 2019 08:51

Gli Aerosmith cantavano nella loro bellissima Amazing: “la vita è un’avventura, non una destinazione”. Qui l’avventura ce l’abbiamo, ma possiamo anche affermare che la vita è una destinazione. Sopravvivere, rimanere in vita, portare se stessi e qualcosa dei nostri cari nel futuro, questa è la destinazione di Light of my life.

Un padre (Casey Affleck), che non ha nome, è sdraiato con la giovane figlia Rag all’interno di una tenda. Fuori solo alberi ed i rumori di un silenziosissimo bosco. Le parole, che rompono il silenzio, raccontano di una volpe che mette in salvo l’amata consorte, ma anche molti altri esseri viventi. Ed è il genitore che con dolcezza e convinzione narra la storia alla figlia, dove troviamo diluvi ed arche a completare la biblica novella (sequenza meravigliosa che incarna appieno il senso del film). Il mondo al loro risveglio non è quello solito, una malattia ignota ha sterminato completamente il genere femminile. Il contesto distopico obbliga il padre e la figlia a vivere da eremiti ed a nascondersi perennemente. La ragazzina è camuffata da maschio per la costante paura di subire violenze dettate da un mondo in cui gli uomini ucciderebbero per una donna. Soprattutto ora che Rag lo sta diventando, Affleck ha il suo ben da fare per proteggerla da ogni persona che incontrano, che incarna un possibile pericolo.

Light of my life è un film che ha molto in comune con “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron e con The Road di John Hillcoat, quest’ultimo tratto dal romanzo capolavoro di Cormac McCarthy.

Casey Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa, si focalizza sulla forza dell’amore di un padre verso la figlia. Non in concorso qui alla Berlinale 2019, il film rientra nella line-up della sezione Panorama. Il premio Oscar per Manchester by the Sea scrive, dirige ed interpreta un padre che mette in risalto le proprie paure più profonde, sorretto dalla figlioletta Anna Pniowsky.

Casey Affleck confeziona un survivor movie intimo. Concentra la sua regia sul rapporto padre/figlia. Il regista cesella con cura queste immagini, le smussa, le accarezza, le coccola e così facendo gli dona respiro e profondità. Questi sono i momenti clou del film. Sembrano poveri in un primo momento, ma il contenuto è robusto e vigoroso. La sua è una sceneggiatura disidratata di materialità, da pochi punti di riferimento, decontestualizza e così facendo il climax è di paura perpetua. Il film ti tiene sempre lì, sull’attenti.

Light of my life pone la sua lente d’ingrandimento sull’umanità e sui suoi istinti, ma anche sulla disperazione, sugli affanni ed infine sulla speranza. Il film guarda verso la società contemporanea, che non sa bene come sarà il proprio futuro. Incertezza uguale a debolezza. Un’umanità senza nessun punto di riferimento fa da contraltare alla ricchezza di sentimento tra padre e figlia, dal quale scaturiscono emozioni palpabili e la speranza di un futuro. Assistiamo al ribaltamento dei ruoli, dove la figlia diventa genitore. Una sorta di   angelo salvifico, non solo del padre, ma anche del genere umano.

Il tutto è ambientato nei boschi e in quelle strade di provincia, nessun grattacielo o l’ombra di una società post-moderna, dove la genuinità regna sovrana, o comunque regnava. Incertezza che globalizza tutto il nostro mondo, anche quello più sincero e naturale.  

David Siena