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Qual è la differenza tra Pornografia e Arte? L'Arte è più cara!

 

Questo è l'incipit che si legge sul sito del Porn Film Festival che si terrà dal 24 al 28 ottobre a Berlino e che quest'anno è alla sua settima edizione.

Il festival, nato dal desiderio di dare spazio a una pornografia che vada al di là dei luoghi comuni, si aprirà con il film Sexual Chronicles of a French Family” di Jean-Marc Barr e Pascal Arnold e sarà chiuso da “Cherry” di Stephen Elliott. Oltre alle proiezioni dei numerosi film in concorso il festival sarà arricchito da quattro workshop: Don't rebuff your way to happiness: A Workshop on "Saying No" un workshop pratico per imparare le strategie per comunicare efficacemente ciò che si vuole, per esprimere disaccordo in una maniera positiva e costruttiva, per imparare a dire “no” con o senza giustificazioni; An FtM experience (Female to Male n.d.a.): avete mai voluto essere “dall'altra parte” rispetto al ruolo assegnato dei generi anche solo per un giorno? Siete mai stati un drag king o una drag queen? Come pensate che uno scambio di generi potrebbe influenzare la vostra esperienza quotidiana?; Bondage Workshop – Japanische Bondage/Shibari sarà invece un workshop introduttivo sul bondage giapponese, i nodi fondamentali, il bondage della parte superiore e inferiore del corpo, come predisporre una corda in sospensione, la sicurezza; infine, data la proliferazione di self made porno che attesta l'interesse per l'auto-osservazione e l'auto-documentazione del proprio corpo alle prese con attività sessuali e con gli stati di eccitazione, col workshop Intimacy on the Screen sarà offerto ai partecipanti un film-set con una troupe per girare piccole scene che li vedranno coinvolti come protagonisti.

 

Questi sono solo alcuni degli ingredienti di questa edizione. Noi di Fuoritraccia abbiamo fatto una breve intervista a Manuela Kay, una delle curatrici del festival, per fare un piccolo approfondimento sui contenuti.

 

Come nasce l'idea di un festival porno?

Non è partita da me, è stato Jürgen Brüning, direttore e fondatore del festival. Ma il desiderio era quello di mostrare nuove e diverse immagini della sessualità, per dare spazio a una pornografia che andasse oltre i soliti significati e clichés. E dare spazio ad artisti, direttori, attori e pubblico al fine di discutere sul porno e la generale rappresentazione della sessualità.

 

Quali sono le novità di questa edizione rispetto alle altre?

Più pubblico... si spera. Film migliori e maggior visibilità. Ma il concetto non è cambiato rispetto agli ultimi anni. Due cose sono nuove: per la prima volta abbiamo un programma di corti gay e lesbici misto. E per la prima volta abbiamo un programma di corti sulla masturbazione.

 

Quali sono i criteri che utilizzate per la scelta di un film da inserire nella programmazione?

Deve piacere a tutti e quattro i curatori. Avere qualcosa di nuovo, innovativo, non misogino, divertente, essere in linea con il festival nel suo tentativo di mostrare modi innovativi di descrivere la sessualità.  Naturalmente questo diventa più difficile ogni anno. Il mero soggetto porno non è sufficiente per noi. Noi scartiamo circa i 2/3 dei film che ci sottopongono.

 

Che problematiche si sono presentate negli anni nell'affrontare questi argomenti?

Molti filmmakers hanno paura di mostrare il loro lavoro in un contesto “porno”. Se il festival avesse un nome come “erotico” o “undergruond” o qualcos'altro sarebbe molto più semplice. Ma noi a essere onesti vogliamo un po' provocare. Naturalmente non prendi finanziamenti pubblici per qualcosa come un “porno” festival. E il pubblico all'inizio è in qualche modo esitante. Ma ogni anno va meglio.

 

Qual è il riscontro con il pubblico internazionale?

Amano il festival perché è unico. E' piuttosto insolito avere questo mix di gay ed etero, uomini e donne, tutti impegnati a discuture e a guardare gli altri che scopano. E' piuttosto speciale e molto liberatorio per le persone di paesi come gli Stati Uniti o l'Australia dove ci sono molta censura e moralismo.

 

Qual è il percorso che ti ha portato fin qui?

Se intendi il mio: sono stata coinvolta in molte discussioni sulla non visibilità della sessualità lesbica. Essere lesbica per me ha significato non aver mai visto immagini della mia sessualità. Così ho cominciato a produrli io stessa, renderli pubblici e discuterne pubblicamente. E qui ho cominciato a essere una “esperta porno” perché ho dovuto guardare molto porno per capire che immagini le persone hanno nella mente, cosa c'è fuori di lì e cosa no. Quali clichés esistono al di fuori e come cambiarli.

 

Grazia Torsiello

 

 

Il 22 marzo scorso è uscito Grief Is The Thing With Feathers di Teho Teardo. Otto intensissime tracce sulla scia dell’elaborazione di una perdita. L’idea nasce nel 2017 a seguito della lettura dell’omonimo libro di Max Porter (Il dolore è una cosa con le piume, edito in Italia da Guanda) alla quale, un mese dopo, si accoda il regista e scrittore Enda Walsh (tra i suoi lavori più importanti nella scrittura Lazarus con David Bowie e Hunger di Steve Mc Queen) che decide di farne uno spettacolo teatrale. Cillian Murphy ne è il protagonista, ora in scena al St. Ann’s Warehouse di New York fino a metà maggio e già sold out nel mese di aprile al Barbican di Londra.
L’album si fregia di validissimi musicisti oltre che di collaborazioni altisonanti del calibro di Joe Lally (Fugazi) al basso. Grazie ad un ascolto privato e riservato a pochi, ho potuto sentirlo in anteprima, nello studio dove è stato creato, e questa intervista è frutto di questo straordinario incontro. 
 
 
Per partorire questo album hai impiegato quasi 2 anni, quanto è cambiato dal 2017?
 
È cambiato un bel po’ c’erano delle cose che ad un certo punto non mi piacevano più e ho dovuto limare dei passaggi che in scena vanno benissimo ma non hanno lo stesso effetto dentro un disco.
Al 95% la musica è la stessa ma con alcune variazioni. Quando sei in uno spettacolo devi interagire con il luogo, con necessità degli attori e altre di scena e anche l’ascolto di un album ha necessità ben precise, ci sono altri livelli di dinamiche, altre durate. Per lo spettacolo importante è stato anche il buon rapporto con Cillian,con cui già mi ero trovato a lavorare. Lui di fatto è un musicista mancato, avendo iniziato la sua carriera nella musica ma poi, proprio grazie ad Enda, si è riscoperto attore.
 
 
 
È necessario un diverso approccio al cinema rispetto al lavoro per il teatro?
 
No, per me si tratta sempre di fare della musica che deve trovare una via per un progetto. Non  ho uno stile per il teatro, uno per il cinema, questo mi sembrerebbe una stronzata. 
Quando ero ragazzino andavo al cinema e sentivo delle colonne sonore, compravo il disco e talvolta succedeva che aveva tutt’altro effetto non funzionando più o viceversa, ad esempio con la colonna sonora di Paris Texas sono nati bambini anche di persone che conosco. Bisogna tenere presente però che la musica per il cinema o per il teatro deve essere più semplice avere meno elementi, in genere più è elaborata e più tende a sgonfiarsi.
 
Qual’è il tuo riferimento per la composizione nei film o nel teatro?
 
C’è un disco fondamentale che dovrebbe essere studiato ed è la colonna sonora di Sandokan dei De Angelis, quel lavoro ha i titoli che corrispondono alle sequenze del film e quando lo ascolti hai sempre quell’unico riferimento e inevitabilmente questo arresta tutta una serie di possibilità che si potrebbero avere. Se cristallizzi la musica in un punto preciso della narrazione riduci la potenzialità della musica stessa. La diversità del teatro è che comunque lo spettacolo ha un certo numero di repliche ma poi finisce rischiando di trasformare l’ascolto successivo in qualcosa di tendenzialmente nostalgico. 
Io perciò compongo basandomi unicamente sulla sceneggiatura e sui colloqui che ho col regista, questo mi garantisce maggiore libertà.
 
Noi in Italia abbiamo codificato un modo di fare musica per il cinema, penso ad esempio ad Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Morricone che raggiunge vette altissime. Quando ho iniziato a far questo lavoro mi sono domandato che tipo di impostazione volessi seguire, inserirmi in una scia che mi avrebbe portato dritto al piano bar oppure fare altro? Io vengo dal punk rock e ho ritenuto che ci potesse essere anche un altro modo per avvicinarsi ad un racconto. Facendo musica senza basarmi unicamente sulle immagini hai musica svincolata ma legata alla storia, entrando in un gioco che dà vita anche ad una serie di contraddizioni, in una ricerca di connessioni tra quello che ti lancia la musica e quello che evocano le immagini. Si creano così infinite possibilità perché l’immagine ha un perimetro ben definito mentre la musica ha un raggio molto più vasto.
 
 
Hai un compositore di riferimento?
 
I miei compositori di riferimento sono i Cramps, il rock’n roll primitivo e brutale, essenzialmente elementare, perché ci sono talmente pochi elementi che o funzionano oppure no, non c’è scampo. Con la tecnologia, i mezzi, un’orchestra, si può in qualche modo confondere le acque per far passare degli andamenti come delle composizioni invece spesso è soltanto aria fritta. Mi piace quel tipo di musica che poi deriva dal blues degli anni 20/30 dove c’era soltanto un uomo con una chitarra e per allargare le cose usava un collo di bottiglia, erano a quel tempo gli archi dei poveri perché, non potendo permettersi altro, davano in questo modo una distorsione. Amo il concetto di ultraeconomia che con pochissimo devi trovare una soluzione. Molta musica che arriva dal cinema non è così e a me stanca tanto. Le cose che mi colpiscono del cinema sono poche, penso ad esempio al lavoro che ha fatto Sakamoto che però non veniva dal cinema, o Trent Reznor che è un gigante ma arriva da un altro ambito musicale, e secondo me è necessario che dopo cento anni di colonne sonore si cambino un po’ le cose. 
 
Una cosa fighissima dei compositori italiani è che di solito hanno sempre il budget più basso rispetto a tutti. Morricone faceva 50 film in un anno, adesso nell’ipotesi migliore uno ne fa tre, quattro, all’epoca lui aveva molto meno tempo per lavorarci il che vuol dire che tutta una serie di cose non le poteva fare e doveva operare delle scelte, questo modo di lavorare continua ad intrigarmi molto. 
 
Sembra tu abbia un marchio ben chiaro oltre che una forte vicinanza a Londra.. 
 
Sono diversi anni che lavoro assieme ad un certo team e Londra è sempre la base dell’operazione e per me è diventato un luogo di riferimento importante e di conseguenza lo è per la mia musica. Mi fa piacere che si senta che c’è un marchio perché quello che faccio è tentare sempre di cancellarlo per poi immancabilmente ritrovarlo. Uno dei miei gruppi preferiti sono i Ramones che hanno un sound ben codificato che si riconosce nell’immediato. È importante avere uno stile preciso che cambia e si trasforma nel tempo ma che faccia sempre riferimento a ciò che precede e ciò che verrà.
 
 
Qual’è il messaggio che vorresti lanciare e c’è un’evoluzione personale all’interno di questo album? 
 
Non ho messaggi politici palesi, però se penso alle persone che hanno suonato in questo disco, al tipo di circuitazione che ha questa musica è già un tipo di messaggio evidente del mio modo di pensare. È interessante anche vedere che queste idee possano poi avere una diffusione ultramainstream come al Barbican di Londra, però arrivano da un altro punto di inizio e questo è già un messaggio. È comunque una questione talmente privata da diventare politica. Non sono assolutamente in sintonia con l’andamento politico di questo paese e credo che questa musica lo manifesti pienamente. È una musica che non è allineata in alcun modo con gli standard estetici che, sia in modo mainstream che underground, sono imperanti, è un no evidente a tutto questo. PJ Harvey diceva che non serve fare delle gran critiche basta fare dei pezzi e non serve nemmeno fare delle interviste per dirlo, basta fare musica. 
In Italia che musica esce? Ok c’è tutto quello che sappiamo ma c’è anche questo e poi tu le cose le metti tutte lì vicine e le cose parlano da sole, dipende anche da chi vuole ascoltare e da come vuole ascoltare.
 
È una musica che però ritrova le sue basi nel passato e che quindi dovremmo già aver metabolizzato, secondo te rimane ancora solo un ascolto di nicchia? Cosa è successo, ci siamo  arrestati? 
 
Cosa io penso degli ultimi 20 anni di questo paese è che ha iniziato a guardarsi l’ombelico sempre più spesso fino a non vedere più niente. C’è stata un’invenzione del rock italiano che in realtà era rock anglosassone ma solo cantato in italiano e questo secondo me è un problema serio. 
Io ad esempio suono perché a 17 anni un mio amico m’ha portato a vedere James Brown a Pordenone e quando l’ho visto sono rimasto folgorato capendo che volevo fare veramente musica nella vita, essere una presenza sul palco che dice delle cose, io volevo far qualcosa: è come un processo di impollinazione dove c’è un seme nell’aria che ti feconda. Se tu metti in un sistema delle cose sterili non fecondano niente ed è evidente. La musica rock è scomparsa ed è strano che sia letteralmente sparita nelle nuove generazioni. Anche in altri ambiti non c’è tutto questo gran fermento e ho la certezza che all’inizio degli anni ‘90 si sia fatta questa invenzione del rock italiano che abbia distrutto una buona fetta di musica e soprattutto anche un pubblico di ascoltatori. Io sono italiano ma non rappresento l’Italia quando suono, è importante non essere ascrivibili ad una precisa nazione perché non facciamo musica etnica, noi suoniamo per tutti. Negli anni ‘90 sono comparsi una serie di imitatori italiani a rifare quello che facevano gli stranieri. C’è stato un atteggiamento di autoreferenzialità imbarazzante, nonostante vi siano un sacco di artisti talentuosi costretti a tagliare la corda. 
Un esempio di tutto ciò può essere dato da Joe Lally, un bassista impressionante, veniva spesso da me perché ha abitato 8 anni a Roma e siamo molto amici, non l’ha mai chiamato nessuno a suonare nel periodo che ha passato qui. È un fuoriclasse, oltre ad essere un uomo che ha avuto un’esperienza clamorosa nella musica, avrebbero potuto contattarlo prima di fare ritorno a Washington 2 anni fa, invece non sapevano nemmeno chi fosse, questa è una cosa davvero significativa.
 
 
Max Porter parlando del tuo album dice: è difficile ascoltare la musica senza sentirsi tristi ma anche pieni di speranza, sei d’accordo?
 
Sì sono d’accordo nel senso che la mia musica è nel dark side delle cose che è un punto di osservazione, il che non significa che io abbia uno sguardo pessimista ma che guardo da un’altra angolazione per vedere la realtà. 
 
Mi è venuta in mente una bella intervista a Jim Jarmusch, in occasione di un suo film dove ho lavorato, nella quale diceva che l’hanno ispirato i cani nel guardare, perché i cani quando osservano inclinano la testa per capire meglio. Nello stesso film c’è Blixa che dice io per capire una cosa devo rovesciarla e, sempre in questo film, c’è Bowie che dice io per mettere bene a fuoco una cosa devo farla saltare per aria. Sono tutte espressioni abbastanza forti, quasi negative, ma in realtà è il contrario. Qui c’è un punto d’osservazione che parte dall’oscurità ma poi guarda verso una possibilità. Credo che questo sia il mio lavoro più oscuro e che sia anche il disco dove la maggior parte degli elementi dentro spingono per venire alla luce. 
 
Sembra un percorso di elaborazione del lutto anche in base alla scaletta che hai scelto, questa rottura dell’abitudine fino all’ultima traccia dove si ha una sensazione quasi di lasciare andare dopo aver raschiato il fondale, di risalire per riprendere aria.. 
 
Il tema principale è tutto giocato sulla scia del ricordo e sull’elaborazione della perdita. Poco tempo fa se n’è andata la mamma di Enda e volevamo qualcosa che servisse a rievocarla, sia una voce quindi che una sonorità ricercata e adatta a questo scopo, la voce di Susanna Buffa non ha un testo sono solo dei vocalizzi e anche la melodia è molto contenuta, è quasi un ectoplasma sonoro che arriva ad un certo punto e poi se ne va.
 
 
Ma come si può musicare una perdita? 
 
Evocare qualcuno che non c’è è un modo per raccontare una perdita, mi allungo così tanto verso te per cercarti ma nel buio non ti trovo. Questa voce questo fa, si appoggia a tutta una serie di passaggi di pizzicato di violoncello e viola che non portano da nessuna parte e ad un certo punto si srotola verso una parte musicale più melodica, ma la voce gira intorno a se stessa ed è come se brancolassimo un po’ nel buio. 
Uno dei modi per approcciarci a questo lavoro con Enda è stato parlare delle nostre rispettive madri domandandoci dove fossero adesso, come qualcosa che era presente nei detriti dei nostri discorsi. 
Si evoca qualcuno che non c’è più forse per prendersi cura di quelli che sono rimasti. Molti di noi hanno avuto dei vuoti difficili da colmare e nella musica io ho trovato uno dei modi per farmela passare.
 
Significativa è stata anche la collaborazione passata di Enda con Bowie per Lazarus. Bowie, quando seppe della sua malattia, lo contattò dicendogli è l’ultima cosa che faccio e vorrei farla con te, Enda ebbe un infarto per il carico di responsabilità. E a proposito di perdite ci sono montagne di provini che Bowie mandava tutte le mattine ad Enda tramite pc, perché per un periodo lavoravano a distanza. Un giorno Enda dimenticò questo computer in aereo e tutto quel materiale è andato perso per sempre.
 
 
Chiara Nucera

Una mujer fantastica

Sabato 18 Febbraio 2017 13:14
Tirando le conclusioni dell’edizione 67 del Festival di Berlino, possiamo fin da subito affermare che il concorso ha proposto una line up non troppo soddisfacente, visto anche il blasone della manifestazione, sempre attenta a titoli stuzzicanti ed allo stesso tempo impegnati. E’ anche vero che uno standard qualitativo di alto livello non è sempre facilmente riconfermabile, ma una flessione c’è stata e rischia di declassare un evento rinomato e di grande prestigio. Tra i titoli del concorso che si salvano, troviamo questa produzione cilena targata Pablo Larrain, che si porta a casa (meritatamente) l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura. Una Mujer Fantastica è un film con una grande anima, che attinge da molteplici influenze artistiche. Una pellicola che urla fortemente la propria identità contro i feroci accanimenti all’individuo etichettato come diverso. In particolare verso la protagonista Marina (Daniela Vega), giovane cameriera trans, vittima di soprusi e violenze. 
 
In un luccicante locale che trasuda anni 80’ e di balera, Orlando (Francisco Reyes) assiste estasiato alla performance canora di Marina. I due hanno una relazione consolidata e profonda. Marina ha 20 anni in meno di Orlando, ma questo non è un ostacolo al loro amore. E’ una sera speciale, è il compleanno di Marina e per festeggiare si regalano una notte di passione. Occasione perfetta per regalare alla donna due biglietti per le cascate Ignazù in Brasile. Purtroppo Orlando ha un malore durante la notte e con concitata frenesia Marina trasporta il compagno in ospedale. Di lì a poco l’uomo muore. Subito vengono aperte delle indagini per verificare se la donna è coinvolta con il decesso. La famiglia di Orlando, che non vede di buon occhio Marina, spalleggia vigorosamente gli investigatori. Lei, a priori, è il problema. Questo impiccio deve essere eliminato e i membri della famiglia del defunto fanno di tutto per farla uscire definitivamente dalle loro vite. Le viene anche proibito di partecipare al funerale. Marina è una donna fiera delle sue scelte, che va a testa alta come un bulldozer contro chi la vuole ghettizzare e denigrare. E’ diventata quello che desiderava e nessuno ora glielo può togliere.
 
In mondo fortemente moralista e quindi non lontano dalla realtà, il regista e sceneggiatore Sebastian Lelio inserisce un personaggio credibile che esige di essere se stesso. La sua è una regia pulita che combina verismo, crudezza ed immaginazione. Mix inusuale che destabilizza (in positivo) il pubblico in sala, che è in grado di provare emozioni rabbiose, coinvolgenti e disperatamente amorevoli.  
Ben scritto e con poche pause, Una Mujer Fantastica è un film che non si nasconde, come il suo regista, figlio della corrente post-dittatura cilena. Il suo furore artistico illuminò la Berlinale 2013 con Gloria (che portò la protagonista Paulina Garcia a vincere il premio come migliore attrice). I due film sono similari nel sotto testo: le donne (con le quali dimostra di lavorare egregiamente) che vincono sulle ingiustizie al maschile. Meno commedia e di conseguenza diventa l’alter ego drammatico di Gloria, ma la voce femminile si sente lo stesso forte e tuonante.
 
Una Mujer Fantastica rappresenterà il Cile ai prossimi premi Oscar. La pellicola sudamericana, che nelle sue pieghe ha chiare influenze del cinema di Almodovar e anche del grande David Linch, è l’esempio lampante di come si possa parlare di diversità senza ricadere nella retorica. Lelio costruisce una storia forte, proponendoci una narrazione che si trasforma in una caccia al tesoro sia materiale che spirituale.
 
David Siena
 
 
 
 
 
 
 

120 Battements par minute

Domenica 28 Maggio 2017 13:24
120 Battements par minute è un viaggio nel tempo che ci riporta nella Francia dei primi anni novanta. E precisamente nel cuore pulsante di Act Up-Paris: un gruppo di attivisti che lottano contro la politica di Mitterrand e le lobby farmaceutiche. La loro battaglia è contro l’Aids, giovane e spietata malattia che dai primi anni ottanta ha mietuto vittime in ogni parte del globo. Rivendicano a voce alta di poter essere adeguatamente curati, colpendo i punti nevralgici dell’indifferenza. All’interno di questa coesa comunità spicca Sean (Nahuel Pérez Biscayart), militante malato che nella sua radicalità trova la sua ragione di vita. Nathan (Arnaud Valois), neofita del gruppo, rimane affascinato la carisma di Sean. Tra di loro nasce una complice ed appassionata intesa, che li vedrà lottare giorno per giorno nella speranza di salvare le proprie vite dalla morte. 
 
 
L’incubo HIV disturba ancora i nostri sonni e Robin Campillo con il suo 120 Battements par minute ci sensibilizza e ci sprona a non sottovalutare il problema, attualmente snobbato soprattutto dai più giovani. 
Il regista marocchino (conosciuto per la sceneggiatura de La Classe: nominato all’Oscar come miglior film straniero nel 2008 e vincitore della Palma d’Oro nello stesso anno) confeziona un film non retorico e politicamente corretto, che rapisce la critica internazionale (vince il premio Fipresci) e lascia il segno nella giuria del festival. Almodovar & C. lo premiano con il Gran Premio della Giuria. Dirige, scrive e monta la sua opera allontanandosi dal moralismo più semplicistico, entrando realisticamente nella malattia e nei cuori dei malati, elevandosi anche ad essere manifesto dell’orgoglio omosessuale. 
 
Campillo stupisce con una regia a tratti intima e a tratti concitata. La prima è pura confidenza, con delicatezza racconta i protagonisti, le loro fragilità e le loro forze. Li guarda da vicino, in ogni senso possibile: meccanico e umano. Riesce nello scopo di raccontare a 360° la persona, non solo quella parte che si avvicina alla morte. Contesto individuale profondo che si raccorda alla perfezione con la highway corale ed animata, dove la direzione artistica diventa un tutt’uno con la protesta e la lotta. Nella sede di Act Up si assapora spirito di unione. I partecipanti si scontrano duramente, ma sono tremendamente coesi. Comunità che esce comunque vincitrice. La verbosità perpetua diventa l’urlo di protesta, che scuote ognuno di noi. Il potente dibattito è il linguaggio che il regista usa per raggiungere il suo scopo e che rende il film diverso da altri del suo genere: ricordarci energicamente che l’Aids è vivo e vegeto e chi ne fa parte non deve essere dimenticato o ghettizzato. 
La spinta di Campillo perde decisamente di mordente quando si sposta sul dolore. Eccede in drammaticità, focalizzando per troppo tempo l’attenzione della camera da presa su immagini che hanno già ampiamente svolto il proprio compito narrativo. Le intenzioni stazionano facendo nascere dei tempi morti indesiderati. Qui il costruttivo lascia troppo spazio al distruttivo. Aspetto concentrato sul corporale che stona, rispetto alle vivide scene di sesso che ricordano l’amore de La Vie d’Adèle (Palma d’Oro 2013), dove il corpo è il mezzo per esprimere noi stessi. 
 
A conti fatti 120 BPM risulta sbilanciato, come quando sia passa dalla lotta (comizi che finisco anche nel sangue) al ballo liberatorio in discoteca. Non per il passaggio materiale, questo è ben costruito, ma per l’ingresso sullo schermo di fantomatiche molecole del virus. Qui sconfina: l’espressione è troppo invasiva e dalle sfumature pacchiane.
 
Rimane un po’ di amaro in bocca dovuto a queste dissonanze. Se da una parte ci apre gli occhi con perle visive (Senna color sangue), dall’altra abbatte l’edificato forse per troppa foga. La lunghezza eccessiva della pellicola è un altro punto a sfavore. 
Una menzione di riguardo va fatta per il giovane attore argentino Nahuel Pérez Biscayart, regala una performance sentita: sensibilità e grinta rendono il suo personaggio dominante e memorabile.
 
David Siena

Selfie

Martedì 04 Giugno 2019 17:08
È possibile uscire da una realtà in cui siamo nati e cresciuti? E se riuscissimo ad uscirne, una parte di essa continuerebbe comunque a risiedere in noi? È possibile ammettere all’interno di un sistema codificato di regole sociali una deviazione dalla norma e con quali conseguenze?
Selfie è un’opera pura, scarna, disincantata, priva di fronzoli o artificiosità sceniche. Agostino Ferrente, dopo il prezioso Le cose belle, fa esattamente ciò che un documentarista dovrebbe fare: si mette da parte affidando ai protagonisti la narrazione di se stessi. Ne deriva un lavoro lontano dalle ipocrisie, al tempo stesso doloroso ma che, come ogni cosa sofferta, non esclude il suo lato romantico e dolce, perché sofferenza e amore sono spesso complementari. Lontano dai cliché a cui il racconto cinematografico ci ha ormai tristemente e noiosamente abituato, dalla vita di due sedicenni Alessandro, garzone di un bar, e Pietro, barbiere disoccupato che si tiene in allenamento con amici e parenti, e dalla loro forte e tenera fratellanza, nasce tutto. Loro i protagonisti, loro i registi, che con cellulare in mano riprendono le loro giornate. Nel corso  di una torrida estate napoletana ci rendono partecipi dei loro pensieri, decidono e ragionano su cosa sia giusto mostrare, se solo le cose belle del Rione Traiano, quartiere alle cronache per le tristi vicende di spaccio e criminalità, perché di quella realtà già se ne parla abbastanza, come dice Pietro, oppure tutta la verità, il bello e il brutto, come vorrebbe Alessandro. E si finisce col mostrare ogni cosa, compresi i sogni e le difficoltà dei suoi giovani abitanti che immaginano un futuro sperando di andare via da quel luogo, anche se gli affetti li legano o talvolta li spronano a lasciare, rendendosi amaramente conto che per alcuni, i predestinati, il balzo sarebbe paragonabile ad un sogno e basta. Pietro e Alessandro avevano un altro fratello acquisito, Davide Bifolco, ucciso dalle forze dell'ordine una notte, casualmente, perché nonostante il giovane fosse disarmato e di spalle, viene scambiato per un pericoloso ricercato e si fa fuoco su di lui, poi raccontando di essere maldestramente inciampati facendo inavvertitamente partire un colpo fatale. In realtà Davide era un ragazzo come tanti, la cui famiglia ora non trova pace e di cui un suo fratello di sangue si è lasciato morire per il dispiacere, dopo il secondo grado di giudizio che nega almeno un risarcimento morale per quella vita recisa. Un martire di un sistema malato, l’ennesimo ultimo che non trova giustizia, resta ad emblema di questa terra contratta alla barbarie la sua immagine dipinta su un muro del quartiere, a monito sempiterno che tutto ciò non dovrebbe mai accadere. 
Tanta verità ci arriva da una delle testimonianze raccolte da Pietro e Alessandro, quella di uno spacciatore che, incappucciato e dalla voce contraffatta, ci spiega il triste senso delle cose, quello che i veri criminali vivono  in quartieri bene circondati da lusso e opulenza, e spesso fanno parte delle classi sociali che contano, sono loro a muovere i fili della manovalanza dello spaccio, che diventa foriero di semplici operai del mercato della droga, per la maggior parte dei quali unica via (facile) per la sopravvivenza. È la logica del sistema in cui non c’è niente da stupirsi. Fin da quando vengono al mondo, maschi e femmine hanno ruoli prestabiliti, gli uomini delinquono, le donne tengono la famiglia in piedi e aspettano mostrando così il rispetto al maschio a cui si sono legate. È tutto ben chiaro e tristemente cristallizzato. Ma in ogni sistema c’è sempre chi tende ad uscire dalla regola, c’è chi sogna e chi forse con gli strumenti adatti a furia di sognare ne uscirà.
Qui non c’è giudizio, c’è solo mostrare per comprendere e far luce, facendo della conoscenza una base per combattere ignoranza e pregiudizio, delle classi sociali più elevate verso le ultime, di quel “noi” confezionato e stigmatizzante nei confronti sempre di un “loro”, perché anche all’interno di quel “loro” esisteranno sempre differenze sostanziali e alternative valide.
 
Chiara Nucera