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Visualizza articoli per tag: alba rohrwacher

Via Castellana Bandiera

Sabato 07 Dicembre 2013 22:21
Rosa (Emma Dante) accompagna in macchina la sua partner Clara (Alba Rohrwacher) a Palermo, per il matrimonio di un amico. Durante il viaggio la tensione fra le due è palpabile; Rosa, fuggita da Palermo e da sua madre anni prima, è inquieta e infastidita all’idea di dover fare i conti con il proprio passato. 
D’altra parte c’è Samira (Elena Cotta, vincitrice della Coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione femminile), donna vecchia e piena di rimpianti; ha perso sua figlia, morta di cancro,  ed ora vive con la famiglia del genero (Renato Malfatti). 
Le due automobili delle protagoniste finiranno per ritrovarsi l’una di fronte all’altra, sbarrandosi la strada a vicenda, nella tortuosa e claustrofobica via Castellana Bandiera, strada a doppio senso in cui sembra non vigere nessuna regola del codice stradale, né morale. Samira, spinta dal genero prepotente, che ne fa inizialmente una questione d’onore, non vuole spostarsi, così come Rosa, che dal suo ritorno a Palermo non aspetta una soluzione ma un ulteriore scontro. Le due macchine rimangono a fronteggiarsi per quasi ventiquattro ore, mentre intorno a loro si susseguono una serie di situazioni surreali animate dalla gente del posto. 
 
Tratto dall’omonimo romanzo della stessa Dante, protagonista e regista, Via Castellana Bandiera non è solo il ritratto di un meridione desolato e desolante, ma una riproduzione in scala ridotta dell’intera penisola, che mette in luce i tentativi sempre più fallimentari di raggiungere un compromesso nello scontro generazionale, culturale e sociale attualmente in atto - è più giusto far passare il vecchio per rispetto o il giovane che avanza? 
Uno stallo umano e politico apparentemente senza uscita. 
Il fatto che la via sembri allargarsi sempre di più durante la notte non è un grossolano errore di continuità, ma un modo per la regista di sottolineare l’irrazionalità della situazione e la cieca testardaggine delle due fazioni.  
 
Una madre che ha perso la figlia e una figlia che ha ripudiato la madre, un paese senza futuro e uno che rinnega il suo passato non vanno da nessuna parte, rimangono lì immobili. 
È la situazione politica degli ultimi anni; due macchine ferme, una di fronte all’altra, un equilibrio precario sorretto dal fatalismo e dalla testardaggine degli schieramenti, mentre chi intorno specula e scommette sulla morte del più debole si illude erroneamente di poter tirare i fili. Samira resta in macchina anche dopo che il genero la esorta a far passare le forestiere; per lei non è più una gara a chi ha le corna più dure. Lo spirito di rivalsa viene sostituito gradualmente da un desiderio di morte, bisogno di ricongiungersi con la figlia, e il vincitore dello scontro verrà decretato dall’irrazionale fatalismo siciliano.
Convincente opera prima, presentata in concorso durante l’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Via Castellana Bandiera è stato distribuito il 19 settembre in 66 sale italiane. 
 
Angelo Santini

Hellhole

Sabato 16 Febbraio 2019 12:43

Bruxelles, 2016. Lì per lì ci viene subito da pensare all’Unione europea e, visto anche quello che sta succedendo in questi periodi, alle aspre critiche verso l’Italia e alla sua politica economica. In Europa siamo considerati Hellhole, o poco ci manca. Ma l’oggetto del contendere in questa pellicola è un altro. E’ il terrore che hanno provocato gli attentati terroristici nella capitale belga nel 2016. Il titolo del film deriva da un’esternazione fatta dal presidente americano Trump, che ha etichettato Bruxelles come una città infernale. Il film scritto e diretto da Bas Devos (belga di nascita) è un emblematico affresco della situazione psicologica della città. Raccontare storie di persone che annaspano come medicamento agli accadimenti di panico e terrore. Hellhole è un opera che si prefigge di suggestionare; un film acre e malinconico. Non per forza necessario, ma nel suo intento efficacie. Il regista mette in scena dei quadri rappresentativi di vite scomposte, che impongono riflessione nello spettatore. Molto significativa la prima sequenza del film, dove degli alunni seduti ai loro banchi di scuola descrivono la città come la capitale jihadista d’Europa e che sarebbe meglio bombardarla. Poi una risata scoppia fragorosa, ma è solo un esorcismo. Le parole pronunciate fanno male e paura, il tremore è reale. Ne scaturisce un dolore da infarto, come si può vedere nella scena subito dopo. Ad una fermata della metropolitana un uomo arranca colpito da un forte malore.

Hellhole è presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Panorama e racconta, con uno sviluppo narrativo ai minimi termini, tre vite problematiche che trasudano malessere inghiottite dalla città belga, luogo di nessuno.  

Mehdi (Hamza Belarbi) è un ragazzo algerino, che vive una vita anonima tra la sua compagnia giovanile e gli affetti. Alba (Alba Rohrwacher), donna di origine italiana, si trova a Bruxelles nelle vesti di traduttrice al Parlamento Europeo. Wannes (Willy Thomas) è un dottore di provenienza fiamminga sperduto e solo; non trova pace dopo la partenza del figlio per il servizio di leva. Stranieri in una terra che ormai è straniera anche per gli abitanti del posto. La libertà di muoversi come si vuole è soffocata da una situazione globale di paura. Lo straniero è comunque un ospite non ben accetto.

Il regista sa esattamente dove posizionare la macchina da presa, riuscendo a creare l’esatto climax di inquietudine globale (Bruxelles città piegata e percossa), fermandosi su immagini rilevanti in modo contemplativo. Estrapola, con la stessa apatia che provano i personaggi, il loro stato d’animo: cupo e depresso. E il disagio diventa palpabile.

E’ la summa della tendenza del cinema degli untimi 20 anni, dalle torri gemelle in poi. Un punto di vista e di arrivo autorale. Non si mette in scena la violenza oggettiva (nulla a che vedere con in vari “Attacco al potere”), ma quella che ne è scaturita dopo il male subito. Soggettività in panico. Una violenza subita che si protrae psicologicamente su tutti i cittadini. Nessuna bomba o sangue, solo il mutismo sordo dell’anima.

Come già anticipato precedentemente con Hellhole non si grida al miracolo cinematografico. Piccola produzione, che nel suo piccolo porta a casa il risultato, o almeno quello che promette mantiene. Bas Devos entra in una sorta di esistenzialismo. E ora dopo tutti questi eventi dove stiamo andando e cosa dobbiamo fare di noi stessi? Ora che anche la libertà è minata, il registro della nostra vita è fosco e i nostri sforzi sprofondano giù, nel posto più remoto dell’inferno.

David Siena

Lacci

Martedì 08 Settembre 2020 13:26
Apre l’edizione 2020 del Festival di Venezia l’ultimo film di Daniele Luchetti, regista romano che spesso pone al centro delle sue opere la natura delle relazioni familiari e sentimentali. 
La storia si apre nel contesto della Napoli dei primi anni 80. Vanda (Alba Rohrwacher) e Aldo (Luigi Lo Cascio) sono una coppia con due figli, un maschio e una femmina, che subito affronta una crisi nel momento in cui lui s’innamora di Lidia,  una collega più giovane che gli farà mettere in discussione il suo ruolo genitoriale e maritale.
Ma il tempo non è sempre portatore di soluzioni edificanti. La seconda metà del film racconta la vita diadica dei più adulti Vanda e Aldo, interpretati stavolta da Laura Morante e Silvio Orlando che, dopo un weekend al mare trovano, al loro ritorno, il proprio appartamento devastato da ignoti e il gatto Labès, unica proiezione di vero e confortevole amore, scomparso.
A questo punto il film ci mostra anche i figli, ormai adulti, dei due protagonisti: Anna (Giovanna Mezzogiorno) e Sandro (Adriano Giannini), che non dividono mai la scena con i propri genitori, rendendo così più evidenti i differenti impatti psicologici delle azioni genitoriali nei confronti di figli inermi.
La natura dei sentimenti e come questi veicolino i rapporti umani è il filo conduttore della narrazione incentrata sulla famiglia protagonista del film di Luchetti, che si muove tra le macerie di una storia familiare che resiste al carico emotivo di un disamore latente che esplode fin dalle prime scene, per colpa o merito di un terzo e giovane personaggio femminile che detona il placido menage di una famiglia medio-borghese dell’Italia dei primi anni 80.
C’è una importante centralità dei dialoghi e delle parole che, seppure esplicativi delle dinamiche sentimentali e familiari, rendono il film a tratti verboso e quasi didascalico. Si ha l’impressione che i personaggi, seppure coinvolti dal pathos emotivo della lotta e della riconciliazione, vogliano spiegare allo spettatore, senza enuclearle davvero, le cause dei loro drammi interiori e le tensioni familiari conseguenti. E tanto i discorsi sono importanti (Aldo è una voce in radio) e puntellano la narrazione, che i momenti tensivi tra i personaggi principali sono resi muti dal regista, che sceglie discretamente di farsi più da parte, rendendoli così, in quei casi, paradossalmente più efficaci e autentici.
Il film mostra le conseguenze psicologiche dell’infanzia, e quindi anche le conseguenze dei rapporti genitoriali, sulla vita dell’uomo adulto e sul valore che questo darà alla propria vita e alla gestione delle proprie pulsioni.
La figura del padre raccontata da Luchetti è quella di un genitore distratto, corrivo, seppure a suo modo presente, che non sa o forse non vuole cogliere davvero le proprie responsabilità in nome di una malcelata sfrontatezza nell’inseguire una felicità amorosa che appaghi l’unico sentimento autentico che provi un uomo vanesio. E’ un padre degli anni 80, di una società in divenire, in cui la famiglia comincia a non essere più, o almeno non solo, il centro della vita dell’uomo. Al tempo stesso però, il personaggio interpretato da Lo Cascio raggiunge il massimo della sua dignità nel momento in cui esprime la volontarietà di seguire la natura delle sue vere passioni. 
“Noi abbiamo fatto un patto, e rispettarlo è un fatto di lealtà. Se ti sei innamorato è un altro conto. Se tu ora dici la verità salvi la vita a tutti” dice Vanda ad Aldo, dopo che lui le confessa il suo tradimento. In questa battuta c’è tutto il senso che nutre lo spirito del messaggio filmico di Luchetti e c’è l’archè di quello che vedremo nell’ora successiva. 
La vera scelta, quella importante davvero, che farà Aldo, non sarà infatti quella di andare via, ma quella di tornare e tenere per sempre il vero amore rinchiuso in un cubo di legno inespugnabile. Come in un’urna, in cui il passato è il laccio corrosivo di un presente privo di reale ed onesta autenticità sentimentale.
I lacci a cui fa riferimento il titolo del film sono infatti legami, a volte nodi, a volte catene, che nutrono lo spirito delle relazioni umane e che in una scena, svolta narrativa nel film, sono fisicamente motore di riconciliazione e strumento di redenzione per un padre per anni assente.
Il vero errore, sembra dire il regista allo spettatore, è quindi quello di non far corrispondere le proprie azioni ai propri sentimenti, costruendo così legami che possano esplicitare un esemplare senso di responsabilità in chi li subisce.
 
Valeria Volpini