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Visualizza articoli per tag: Michael Fassbender

Svelato il vero assassino di JFK

Venerdì 29 Novembre 2013 22:17

Resa pubblica per promuovere l'uscita dell'imminente “X Men: Days of Future Past”, una breve clip svela l'oscuro retroscena dietro uno degli eventi fondanti della storia del 20esimo secolo. Il vero assassino di JF Kennedy è Magneto. Interpretato da Michael Fassbender, lo spietato  mutante avrebbe controllato la traiettoria del proiettile fino a farlo esplodere nella testa dell'ex presidente degli Stati Uniti d'America!

SHAME

Martedì 24 Gennaio 2012 13:34

Attesissimo da settembre, dall'ultimo Festival di Venezia, arrivato in sala e finalmente visto ieri sera il secondo film del giovane regista inglese Steve McQueen del quale forse non si sa molto ma del quale sicuramente resta impossibile dimenticarne il nome.
Impossibile da dimenticare anche il titolo del film e finalmente un applauso alla BIM che lo ha distribuito senza aggiungere, tradurre o manipolare nulla. Un titolo che racchiude come vedremo l'essenza del film. Secondo plauso agli amici del Nuovo Sacher che hanno aumentato a due i giorni di proiezione in versione originale del film e questa per i puristi del Cinema è gioia vera, inoltre lunedì e martedì sono anche a mio avviso i due giorni più belli per frequentare le sale.
Detto questo tornerei alla presentazione dell'autore di "Shame", il giovane englishman di origine africana dal nome e cognome così hollywoodiani. Steve McQueen si era presentato quattro anni fa vincendo la Caméra d'Or per la migliore opera prima al 61° Festival di Cannes con "Hunger" ispirato alle ultime settimane di vita di Bobby Sands, interpretato dal tedesco Michael Fassbender all'epoca ancora poco conosciuto e che anche in "Shame" è protagonista assoluto della storia e della scena.
"Shame" è totalmente ambientato a New York e narra la via senza ritorno di Brandon, un uomo totalmente in preda all'idea e alla pratica del sesso. La sua "malattia" del sesso è vissuta in maniera insaziabile con prostitute, donne e uomini occasionali, riviste, siti hard o addirittura in momenti inaspettati da solo sotto la doccia o andando a urinare durante una pausa di lavoro. Chi aprirà la valvola alla pressione della macchina-Brandon sarà l'arrivo in città della sorellina Sissey, una fragile, dolcemente ingrassata Carey Mulligan che ha molti aspetti in comune con l'Irene di "Drive".
Come "Hunger" anche "Shame" è ambientato in uno spazio temporale estremamente ridotto e ha una connotazione fortemente "British" a cominciare dalla fotografia e dalla non-necessità di esplicare tutto con la sceneggiatura. Ecco. Ho appena fatto riferimento a uno degli elementi che daranno a questo film il mio alto gradimento: se forse il plot di "Shame" è fin troppo chiaro e privo di colpi di scena è vero che molte inquadrature (e almeno tre o quattro in particolare) sono splendide evocazioni e suggestioni che il regista ci da l'opportunità di riuscire a cogliere in perfetta autonomia di visione grazie a una fotografia asciutta, primi piani soffertissimi e mai "lacrimosi", carrellate sulle vie di una New York notturna che dai tempi di "After hours" di Scorsese non rivedevo (e che mi chiedo se Woody Allen abbia mai vista) e infine a una scelta delle musiche, sia quelle originali di Harry Escott che i motivi classici di J.S.Bach, che danno un senso doloroso ma profondamente spirituale al calvario di Brandon.
Brandon è incapace d'amare e addirittura di corteggiare. Se ci prova fallisce anche in quello che è il suo "impegno" quotidiano, la sua attività principale. L'unica persona che può farlo piangere o arrabbiare è Sissey che in una bellissima e jazzata versione di "New York, New York" riuscirà anche a smuovere quella pietra di suo fratello. Si, perché il testo di questa canzone che tutti noi fischiettiamo allegramente è in realtà il rovescio della medaglia di una città che dietro le luci e i divertimenti a portata di mano nasconde gli affanni e le frustrazioni di tante singole persone.
Altro grande merito del film oltre allo stile artistico e alla bravura di un Michael Fassbender giustamente premiato con la Coppa Volpi è senz'altro la scelta più che coraggiosa del soggetto. Se fino a oggi la sesso-mania o comunque la necessità del sesso come unico elemento vitale per nascondere altre mancanze era stata narrata (e in alcuni film anche molto bene) in versione di legame di coppia ecco che il regista inglese focalizza il tutto su un solo personaggio che sicuramente qualcosa di brutto nella propria infanzia avrà pur vissuto (lo si intuisce da una frase della sorella nel finale del film "Noi non siamo brutti, siamo cresciuti in posti brutti").
Se capolavori come "L'impero dei sensi" o "Ultimo tango a Parigi" e più recentemente "Une liaison pornographique" o anche "Intimacy" hanno splendidamente raccontato questo tema riguardo la coppia, non ricordo film di questo livello puntati su un singolo, sulla dipendenza dal sesso in una realtà solitaria come quella vista ieri sera in "Shame".
La disperazione di un uomo che anche quando per un attimo o per un giorno decide di buttare via tutto per pensare ad altro, non trova niente intorno che possa sostituire la "droga" della quale è ormai schiavo. E come per i drogati incalliti non c'è più soddifazione neanche appena assunta l'ennesima dose ma solo all'idea di procurarsela così in quel preciso momento, in quello che dovrebbe essere il momento del godimento, del piacere c'è la smorfia di dolore di Brandon.
E della sua infinita solitudine. Chapeau!

Marco Castrichella

The Counselor

Sabato 18 Gennaio 2014 14:55

“Indurirono il cuore come un diamante per non udire la legge e le parole che il signore degli eserciti rivolgeva loro mediante il suo spirito, per mezzo dei profeti del passato”, recita Zaccaria, nel testo biblico.

E dall’acquisto di un diamante, di pregiata caratura e taglio antico, si dipana la complessa sceneggiatura di Cormac McCarthy, una sorta di rarefazione, in forma drammatica, delle istanze presenti nella cosiddetta “trilogia della frontiera” e ancor prima, con personaggi senza nome (come lo stagnino in “Il buio fuori”) e le radure desertiche, inospitali, site al confine fra il Messico e gli Stati Uniti (“Cavalli selvaggi”, “Oltre il confine”). 
Entro il limes tra terre incolte e civiltà corrotte e alienanti, si muovono dei personaggi spaesati, soli, ognuno dissonante rispetto all’altro, quasi fossero tratti dalla piece beckettiana “Finale di partita”: l’avvocato, abiti impeccabili, ma unghie sporche (straordinario Michael Fassbender che  traccia la propria inevitabile caduta con magistrale adesione emotiva, nudo, ancora una volta, di fronte al peccato di esistere), e nessun nome per lui, sembra quasi incapace di sedersi o lo fa per brevissimi istanti, quasi sempre sulla parte distale della seduta o, comunque, con un’energia propria di chi si sta muovendo. I personaggi che lo circondano sembrano, di contro, incapaci di abbandonare le oasi nelle quali sono rintanati e, se lo fanno, si tratta di un viaggio senza ritorno. Essi sono cassandre dell’ineluttabile, ma allo stesso tempo forieri del dubbio che non consentirà loro di salvarsi, in una spirale di cupidigia, amore immaturo, carnalità senza corpi, fantasmatica, come la prima scena ci suggerisce iconicamente.
E, come nel testo di Beckett, fra di essi si gioca una partita a scacchi il cui svolgimento, fino a quel punto, ci è dato sapere solo per piccoli frammenti, presto inessenziali, come una storia torbida della quale a nessuno, in fondo, importi più. La posta in gioco è un’altra: la sopravvivenza, una sopravvivenza ferina, quella del ghepardo che rincorre la preda, ma che a sua volta, troppo furbo per diffidare della propria eternità di predatore, soccombe di fronte all’uomo che gli mette al collo uno scintillante guinzaglio. 
E per l’uomo stesso – o per la donna, non ludi magister, ma ingranaggio inconsapevole e fallace, come il ghepardo - abbandonato da dio, ricusato o cercato invano, resta il lupo della celebre locuzione di Erasmo, “homo homini aut deus aut lupus”.
Sopra tutti un fato imperscrutabile che detta la legge dell’essere con il proprio lunatico umore: del diamante, del quale si conosce l’inizio e non la fine, non basta sondare la purezza, la trasparenza, la durezza, neppure il taglio. Va scorto il difetto impercettibile all’occhio superbo, quella particella microscopica che è forse il vero capitale umano. E non vale niente.
La mano registica di Scott, al servizio di un testo tanto denso e stratificato, risulta composta, ritmata, ma mai intrusiva. Nelle mani di David Cronenberg questo ottimo film sarebbe probabilmente risultato un capolavoro.
 
Ilaria Mainardi

12 anni schiavo

Domenica 02 Febbraio 2014 15:53
Quanto è illuminante quel grande monomaniaco di Harold Bloom, il bardolatra per eccellenza, quando parla di Shakespeare!
A lui, in particolare con la creazione di Amleto, attribuisce il merito, fra le altre enormi cose, di rispondere al nostro “bisogno di identità” e a ciò i filosofi attribuivano al Socrate secondo Platone o a Gesù, secondo Marco, un personaggio letterario, venerato come Dio. Amleto, secondo Bloom, è l’autocoscienza dell’occidente e Orazio lo perdona per indefesso amore, noi lo perdoniamo perché sappiamo che potremmo essere come lui, anzi no, una parte piccola di quella grande consapevolezza. Ma potremmo essere anche come Riccardo III che non esita ad ammazzare bambini che si frappongono fra sé e ciò che va fatto.
La consapevolezza di Amleto è quella degli impulsi nietzschiani che straziano l’essere umano fra una trascendenza impossibile e una inaccettabile immanenza. Quella di Riccardo è diversa, è una morale dell’utile che non ci è così lontana: le conosciamo bene quell’avidità, quella bramosia, quella volontà di riscatto, costi quel che costi. Non faremmo (non faremmo?) come lui, ma sappiamo di cosa si tratta, perché la dicotomia buono/cattivo è roba da talk show e la morale, Kant ce lo insegna, è una cosa seria.
“12 anni schiavo” che non ha la grandezza intimista e dolorosa di “Shame” né la forza visiva dirompente dei liquami desadiani di “Hunger”, è però un film profondamente shakespeariano e dunque, come naturale conseguenza, antiretorico, riuscito.
Senza voler dimostrare, McQueen mostra: mostra un uomo nero, ma libero (ciò non è antistorico, ma dipendeva dalla legge dei singoli stati), a cui nulla cale della sorte di uomini neri come lui, ma incatenati. Mostra uomini bianchi nell’atto dello scambiarsi la mercanzia, privi di compassione. E poi, dopo circa un’ora di narrazione, sposta la lente sul vero protagonista del film, anche solo in virtù dell’ennesima gigantesca, mimetica performance di Michael Fassbender, della sua storia di neri: l’uomo che si pensa come bianco, lo schiavista atroce, il vigliacco eugenetico della frusta. Tuttavia lo eleva, lo rende altro da quella crudeltà che sferza, più violenta ancora, nei primissimi piani insistiti, dolenti di Mr. Epps: lo rende umano, simile a noi, fisico e terragno, persino, inconcepibilmente, seducente in quella fisicità ferina.
Non lo assolve, chiaro. Come potrebbe? 
Il cinema di McQueen, del resto, non ha bisogno della lezione morale, dell’enfasi, delle sottolineature drammatiche e neppure dell’overacting, abiurato in nome di una compostezza formale impeccabile, ancor più straziante nella sua limpida dignità: non ce l’aveva quando raccontava le gesta erotiche di Brandon Sullivan e neppure, narrando la salita al laico Golgota di Bobby Sands, colui che temeva la morte, ma non aveva paura di morire.
Ma come quelli ci parlavano, chiaro e forte, Edwin Epps ci parla. Nella sua scissione profonda fra subcultura della razza e natura delle passioni, una divisione che ne acuisce la rabbia, ma, al contempo, il dolore, “12 anni schiavo” racconta un eterno presente, guardandoci dritto negli occhi, non delegando nulla al fuori scena o a qualche rassicurante conversione. La poltroncina sotto il sedere dello spettatore deve bruciare perché non è certo cinema da salotto questo: è piuttosto cinema di urgenze, di conflitti vividi, come il rosso-arancio della fotografia, allo stesso tempo sudata, marcia e splendidamente caravaggesca. 
Cercare qui una trattazione pedissequa sulla schiavitù sarebbe come cercare in “Amleto” solo una disamina sulla corruzione, insita in ogni umano potere, tralasciando i becchini, Orazio, Ofelia. Tralasciando l’essenza vera di Amleto.
E risulta dunque funzionale, quasi doveroso, senz’altro logico, dopo tanto dolore, il discusso deus ex machina, inserito repentinamente a risolvere una “piccola” vicenda biografica: lo faceva anche Euripide, non a caso il più realistico e simpatetico dei classici greci.
Perché le schiavitù invece, lo cogliamo negli occhi splendidi di Solomon (eccellente il raffinato interprete londinese Chiwetel Ejiofor) , e lo sappiamo bene, guardando alla storia, anche a quella del nostro tempo, non sono mai finite.
 
Ilaria Mainardi

X-men - Giorni di un futuro passato

Giovedì 15 Maggio 2014 16:02

Bryan Singer (già regista di X-Men e X-Men 2) torna dietro la macchina da presa per dirigere Giorni di un futuro passato,  il quinto episodio ufficiale della fortunata saga. Tratto dall’omonimo arco narrativo di Chris Claremont e John Byrne, del quale più che un libero adattamento sembra esserne uno stupro, il film è ambientato in un futuro non troppo lontano, già ipotizzato all’inizio di X-Men - Conflitto Finale, in cui invincibili Sentinelle hanno preso il controllo sul mondo provocando un olocausto di mutanti. In questo scenario apocalittico il Professor Xavier (Patrick Stewart) e Magneto (Ian McKellen), di nuovo fianco a fianco, guidano un ristretto gruppo di mutanti sopravvissuti. Con l’aiuto di Kitty Pryde (Ellen Page), Wolverine (Hugh Jackman) viene mandato indietro nel tempo fino all’anno 1973, per impedire l’omicidio di Bolivar Tarsk (Peter Dinklage), futuro creatore delle Sentinelle, per mano di Mystica (Jennifer Lawrence), e avvertire i giovani Xavier (James McAvoy) e Magneto (Micheal Fassbender) del pericolo incombente. Il Charles Xavier con cui viene a contatto nel passato, però, è un uomo debole, acerbo e pieno di rancore, molto diverso da quello che Wolverine aveva imparato a conoscere. I due insieme a Hank McCoy (Nicholas Hoult) combinano un casino dopo l’altro, neanche avessero mandato indietro nel tempo Leslie Nielsen; falliscono inizialmente il loro tentativo di scongiurare l’apocalisse, anzi, rischiano addirittura di anticiparla. Proprio quando la situazione sembra degenerare - Magneto sradica in blocco un intero stadio da baseball e vuole uccidere Nixon - , invece, ci ritroviamo catapultati di punto in bianco in un finale idilliaco che rasenta il peggior Beautiful, con luci “smarmellate” e personaggi morti tre o quattro film prima che tornano miracolosamente in vita. 

 

 
Già dai primi minuti il film sa di già visto: sullo sfondo di una città distrutta, una voce fuori campo si domanda se il futuro sia scritto o meno, in un monologo che è il collage scriteriato di tutti prologhi dei vari Terminator. Nei dialoghi si riciclano le medesime frasi della prima trilogia nelle medesime circostanze: le menate sull’integrazione dei mutanti, il labile confine fra il bene e il male e le freddure da macho di Wolverine/Jackman. Gli effetti digitali megalomani, quelli che il geek di turno considererebbe “mozzafiato” per intenderci, fra massimo quindici anni appariranno datati, estremamente pacchiani e ne rideremo, come oggi facciamo di certe icone trash degli anni ’80. 
Tutto questo in un plot talmente zeppo di paradossi spazio-temporali, che il buon vecchio Doc Brown si metterebbe le mani fra i capelli. Lo scopo di intrattenimento tipico dei cinefumetti qui è tutt’altro che trasversale, arriva diretto, senza nemmeno fingere di attraversare tappe più auliche come ci insegna il furbo Nolan. Lo sforzo per gestire un set titanico e un cast tanto numeroso va indubbiamente riconosciuto, ma i risultati, in termini di originalità, sono veramente poveri. X-Men - Giorni di un futuro passato non è altro che il giocattolone standard dal budget stellare (225 milioni di dollari!) adatto ai bambini dagli 8 ai 30 anni. 
 
Angelo Santini

Venezia 73. Il programma ufficiale

Venerdì 29 Luglio 2016 17:04
 
 
Annunciato finalmente l'attesissimo elenco completo dei film in programma alla 73esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che si terrà come ogni anno nella splendica cornice del Lido dal 31 agosto al 10 settembre. Come presidente di giuria già da giorni è stato confermato il nome di  Sam Mendes che assieme a Giancarlo De Cataldo, Chiara Mastroianni, Laurie Anderson, l'attrice Gemma Arterton, la collega tedesca Nina Hoss, il regista statunitense Joshua Oppenheimer, Lorenzo Vigas (Leone d'oro per il miglior film alla scorsa Mostra di Venezia nel 2015 con la sua opera prima Desde allà) e l'attrice, regista e cantante cinese Zhao Wei avrà il difficile compito di decretare i vincitori. Madrina d'eccezione sarà invece Sonia Bergamasco e sempre da poco sono stati svelate le identità dei due Leoni d'Oro alla carriera di questa edizione: Jean Paul Belmondo e Jerzy Skolimowski.
Il film d'apertura sarà una piacevole sorpresa, La La Land di Damien Chazelle, opera musicale in concorso con Ryan Gosling ed Emma Stone che prenderanno parte alla kermesse. Per quanto riguarda la chiusura sarà invece affidata a The Magnificent Seven nella rivisitazione di Antoine Fuqua, fuori concorso ma con un cast d'eccezione: Denzel Washington, Chris Pratt, Ethan Hawke, Vincent D'Onofrio, Byung-Hun Lee e Peter Sarsgaard. 
Duplice omaggio a due grandissimi cineasti che da poco ci hanno lasciato: Michael Cimino, con la proiezione de L'anno del dragone (1985) con Michey Rourke e Abbas Kiarostami con un corto inedito della serie 24Frames (alla quale il regista stava ancora lavorando) e con la proiezione di un film di montaggio del fedele e storico collaboratore del regista Seifollah Samadian, THI IS MY FILM: 76 Minutes and 15 Seconds with Kiarostami.
Per la sezione restauri di Venezia Classici segnaliamo la proiezione di Dawn of the Dead – European Cut [Zombi] di George A. Romero, nella versione curata all'epoca da Dario Argento per il mercato europeo, l'opera verrà presentata dallo stesso Argento e da Nicolas Winding Refn, grande fan e seguace di entrambi i maestri dell'horror.
Tra le sorprese, sicuramente, Jackie di Pablo Larrain con Natalie Portman e The Lights Between Oceans di Derek Cianfrance con Michael Fassbender e Alicia Vikander che sembra colorerranno con la loro presenza la manifestazione.
Confermate anche le presenze di Tom Ford, Denis Villeneuve, Emir Kusturica, Wim Wenders e Stephane Brizè. In arrivo in concorso anche i nuovi film The Bad Back di Ana Lily Anipour, con i “cannibalici” Keanu Reeves, Jason Momoa e Jim Carrey e Lav Diaz (già vincitore di Orizzonti con Melancholia). Da non dimenticare la presenza del pisano Roan Johnson con la commedia Piuma.
Fuori concorso ma da segnalare anche le prime due puntate di The Young Pope di Paolo Sorrentino, gia annunciato alla scorsa Festa del Cinema di Roma, il ritorno di Mel Gibson da regista con lo storico Hacksaw Ridge,  Assalto al Cielo di Francesco Munzi (Anime Nere) e One More Time With Feeling, il documentario su Nick Cave di Andrew Dominik. Molto originali le selezioni della Settimana Internazionale della Critica aperta dal cortometraggio Pagliacci di Marco Bellocchio e il ricco programma delle Giornate degli Autori, con Indivisibili di Edoardo De Angelis.
 
 
La La Land
 
 
Nel dettaglio il programma dei film in concorso:
 
ANA LILY AMIRPOUR - THE BAD BATCH 
Usa, 115’
Suki Waterhouse, Jason Momoa, Keanu Reeves, Jim Carrey, Giovanni Ribisi 
 
STÉPHANE BRIZÉ - UNE VIE
 Francia, Belgio, 119’
Judith Chemla, Jean-Pierre Darroussin, Swann Arlaud, Yolande Moreau 
 
DAMIEN CHAZELLE - LA LA LAND 
Usa, 127’
Ryan Gosling, Emma Stone, John Legend, J.K. Simmons, Finn Wittrock 
 
DEREK CIANFRANCE - THE LIGHT BETWEEN OCEANS
 Usa, Australia, Nuova Zelanda, 133’
Michael Fassbender, Alicia Vikander, Rachel Weisz,  Emily Barclay 
 
MARIANO COHN, GASTÓN DUPRAT - EL CIUDADANO ILUSTRE
 Argentina, Spagna, 118’
Oscar Martínez, Dady Brieva, Andrea Frigerio, Nora Navas, Gustavo Garzón 
 
MASSIMO D’ANOLFI, MARTINA PARENTI - SPIRA MIRABILIS 
Italia, Svizzera, 121’
(documentario) 
 
LAV DIAZ - ANG BABAENG HUMAYO (THE WOMAN WHO LEFT) 
Filippine, 226’
Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz 
 
AMAT ESCALANTE - LA REGIÓN SALVAJE 
Messico, 100’
Ruth Ramos, Simone Bucio, Jesús Meza, Edén Villavicencio 
 
TOM FORD - NOCTURNAL ANIMALS
 Usa, 115’
Jake Gyllenhaal, Amy Adams, Michael Shannon, Aaron Taylor-Johnson, Isla Fisher, Laura Linney 
 
ROAN JOHNSON - PIUMA 
Italia, 98’
Luigi Fedele, Blu Yoshimi Di Martino, Sergio Pierattini, Michela Cescon, Francesco Colella 
 
ANDREI KONCHALOVSKY - RAI (PARADISE)
 Russia, Germania, 130’
Julia Vysotskaya, Christian Clauss, Philippe Duquesne, Victor Sukhorukov, Peter Kurt 
 
MARTIN KOOLHOVEN - BRIMSTONE 
Paesi Bassi, Germania, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Svezia, 148’
Dakota Fanning, Guy Pearce, Emilia Jones, Kit Harington, Carice Van Houten 
 
PABLO LARRAÍN - JACKIE
 Usa, Cile, 95’
Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, John Hurt
 
EMIR KUSTURICA - NA MLIJECNOM PUTU (ON THE MILKY ROAD) 
Serbia, Gran Bretagna, Usa, 125’
Monica Bellucci, Emir Kusturica, Sloboda Micalovic, Predrag Manojlovic 
 
TERRENCE MALICK - VOYAGE OF TIME 
Usa, Germania, 90’
(documentario)
Cate Blanchett 
 
CHRISTOPHER MURRAY - EL CRISTO CIEGO
 Cile, Francia, 85’
Michael Silva, Bastian Inostroza, Ana Maria Henriquez, Mauricio Pinto 
 
FRANÇOIS OZON - FRANTZ 
Francia, Germania, 113’
Pierre Niney, Paula Beer, Marie Gruber, Ernst Stötzner, Cyrielle Claire 
 
GIUSEPPE PICCIONI - QUESTI GIORNI
 Italia, 120’
Margherita Buy, Marta Gastini, Laura Adriani, Maria Roveran, Caterina Le Caselle, Filippo Timi 
 
DENIS VILLENEUVE - ARRIVAL 
Usa, 116’
Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg 
 
WIM WENDERS - LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ (3D)
 Francia, Germania, 97’
Reda Kateb, Sophie Semin, Jens Harzer, Nick Cave 
 
 
ONE MORE TIME WITH FEELING di Andrew Dominik
 
Fuori concorso troviamo:
 
BRUNO CHIARAVALLOTI, CLAUDIO JAMPAGLIA, BENEDETTA ARGENTIERI - OUR WAR
 Italia, Usa, 68'
(documentario) 
 
KASPER COLLIN - I CALLED HIM MORGAN
 Svezia, Usa, 91'
(documentario) 
 
PHILIPPE FALARDEAU - THE BLEEDER
 Usa, Canada, 93'
Liev Schreiber, Naomi Watts, Elisabeth Moss, Ron Perlman, Jim Gaffigan, Pooch Hall
 
ANTOINE FUQUA - THE MAGNIFICENT SEVEN
 Usa, 130’
Denzel Washington, Chris Pratt, Ethan Hawke, Vincent D’Onofrio, Byung-Hun Lee, Peter Sarsgaard
 
MEL GIBSON - HACKSAW RIDGE 
Usa, Australia, 131'
Andrew Garfield, Vince Vaughn, Teresa Palmer, Sam Worthington, Luke  Bracey
 
NICK HAMM - THE JOURNEY 
Gran Bretagna, 94'
Timothy Spall, Colm Meaney, Freddie Highmore, John Hurt, Toby Stephens
 
BENOÎT JACQUOT - À JAMAIS 
Francia, Portogallo, 86'
Mathieu Amalric, Julia Roy, Jeanne Balibar
 
KIM JEE WOON - MILJEONG (THE AGE OF SHADOWS)
 Corea del Sud, 139'
Song Kang ho, Gong Yoo, Han Ji min
 
YASUSHI KAWAMURA - GANTZ:O
 Giappone, 95'
(film d'animazione) 
 
SERGEI LOZNITSA - AUSTERLITZ 
Germania, 94'
(documentario)
 
FRANCESCO MUNZI - ASSALTO AL CIELO
 Italia, 78'
(documentario) 
 
AMIR NADERI - MONTE
 Italia, Usa, Francia, 110'
Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Anna Bonaiuto, Zaccaria Zanghellini
 
KIM ROSSI STUART - TOMMASO 
Italia, 97'
Kim Rossi Stuart, Camilla Diana, Jasmine Trinca, Cristiana Capotondi
 
ULRICH SEIDL - SAFARI
 Austria, Danimarca, 90'
(documentario) 
 
CHARLIE SISKEL - AMERICAN ANARCHIST 
Usa, 80'
(documentario) 
 
PAOLO SORRENTINO - THE YOUNG POPE (EPISODI I E II) 
Italia, Francia, Spagna, Usa, 112’
Jude Law, Diane Keaton, Silvio Orlando, Scott Shepherd, Cécile de France, Javier Cámara, Ludivine Sagnier, Tony Bertorelli, James Cromwell
 
REBECCA ZLOTOWSKI - PLANETARIUM
 Francia, Belgio, 108’
Natalie Portman, Lily-Rose Depp, Emmanuel Salinger 
 
 
Tutte le informazioni nel dettaglio consultando http://www.labiennale.org/it/cinema/73-mostra/film/index.html
 
Chiara Nucera 

X Men: Apocalisse

Venerdì 20 Maggio 2016 11:23

Ambientato dieci anni dopo gli avvenimenti di Giorni di un futuro passato, Bryan Singer dirige il nono film degli X-men. Questa volta la minaccia viene dell'antico Egitto, trattasi di En Sabah Nur (Oscar Isaac), secondo le leggende il primo dei mutanti. Sfuggito alla morte è in grado di rigenerarsi impossessandosi dei corpi di altri mutanti di cui assimila le abilità diventando invincibile. Sepolto sotto i resti della sua piramide, ora si risveglia per ripulire il mondo dai deboli e cerca tra i potenziati quattro "cavalieri" per la sua "apocalisse". Charles Xavier (James McAvoy) continua ad insegnare e dirigere la  scuola per "Giovani Dotati". Tra le nuove leve Scott Summers (Tye Sheridan) e una giovanissima Jean Grey (Sophie Turner) ignari del proprio futuro. Mistica (Jennifer Lawrence) si è allontanata da tutti ma fa la sua parte, alla ricerca dei mutanti più bisognosi di aiuto. E' considerata un'eroina ma rifiuta questo appellativo e le sue vere sembianze. Magneto, Erik Lehnsherr (Michael Fassbender) il ricercato numero, ha cambiato vita, si nasconde in Germania con una falsa identità. Ambientato nel 1983, i personaggi indossano i costumi dei fumetti classici, mettendo fine alla polemica  (iniziata nel 1999 ) dove non si capiva perché al cinema il costume di Spiderman da Uomo Ragno potesse funzionare ma non le tutine sgargianti degli X-Men, un esempio per tutti: Psylocke combatte con la sua discinta tutina aderente viola con i tacchi, ridicolo? no riuscitissima personificazione della carta stampata. Apocalisse (criticato da tanti) è il classico villain di vecchio stampo, sete di potere, deliri di onnipotenza, battute teatrali, entrate in scena inopportune, incline a borbottare per ogni piccolo fallimento è esattamente ciò che il regista voleva che fosse, Oscar Isacc recita con gli occhi un fumettone, non doveva essere diverso. Il background di Magneto invece così come le sue scelte nel film destano perplessità. Aggiungere dramma e dolore a un personaggio sempre in lotta con se stesso, sempre sul confine di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è superfluo, chi sopravvive ad Auschwitz non ha davvero ragione di trovare altre motivazioni per odiare l'umanità. Girato con 234 milioni di dollari, gli effetti e la musica di Jhon Ottman (che ripesca dagli anni 80) ne fanno un blockbuster epico, con una sceneggiatura meno ricca rispetto al precedente. Innegabilmente i personaggi vecchi e nuovi hanno tutti il giusto spazio d'azione, la loro storia è ben raccontata, se questa era la sfida del regista è stata vinta. 

 
Francesca Tulli

Assassin's Creed

Giovedì 05 Gennaio 2017 15:07
Ubisoft Montreal sviluppa nel 2007 Assassin’s Creed, videogioco capace di regalare un’esperienza visiva e interattiva diversa dalla consuetudine offerta dal mondo del game.  Basato sul concetto di open world (condizione grazie alla quale il giocatore è libero di muoversi in ogni angolo del mondo virtuale), il videogioco riscuote in pochi anni un enorme successo conquistando una vasta fetta di appassionati dell’action and adventure game.  La trama del gioco si dipana in differenti epoche che vanno dal 1190 al periodo dell’Inquisizione spagnola, e vede come protagoniste due fazioni in netto contrasto tra loro: l’ Ordine Templare da un lato, schierato per il controllo della vita degli uomini, e la Confraternita degli Assassini dall’altro, fazione mossa dalla volontà di eliminare ogni forma di tirannia nel nome della giustizia.  Il regista Justin Kurzel decide di intraprendere un cammino tortuoso e assai imprudente come quello dei cinegame. Affiancato da Micheal Fassbender (già protagonista nella pellicola Macbeth diretta dallo stesso Kurzel nel 2016), il regista ricrea un personaggio del tutto nuovo, senza riprendere fedelmente una delle avventure della serie.  Il risultato è un film denso di azione e avventura, contraddistinto da immagini fortemente evocative, mosse dalla precisa volontà di ricreare una realtà credibile e allo stesso modo spettacolare. Protagonista della vicenda è Callum Lynch, un criminale che scampa miracolosamente alla morte grazie alla Multinazionale Templare, interessata al peculiare patrimonio genetico dell’individuo. Lynch viene affidato alla dottoressa Sophia Rikkin (Marion Cotillard), figlia del fondatore dell’Abstergo (una delle più grandi e influenti multinazionali farmaceutiche), Alan Rikkin ( Jeremy Irons). Grazie ad una particolare tecnologia elaborata al fine di sbloccare i ricordi genetici, Lynch scopre di discendere da una società segreta, Gli Assassini, attiva nella Spagna del XV secolo. Attraverso il suo antenato Aguilar De Nerha, Lynch si ritroverà nell’Andalusia del 1492, alla ricerca della mela dell’Eden, chiave contenente il codice genetico del libero arbitrio umano. Il film girato in location naturali,  punta sulla ricostruzione di un mondo contornato da mistero e realismo, utilizzando in modo piuttosto pesato la CGI.  Lo sforzo di  Kurzel nel dare una personale interpretazione ad una storia complessa e sfaccettata come quella trattata nella serie videoludica, è ammirevole anche se evidenzia molteplici fragilità. Prima su tutte, è l’assenza di quel massiccio mantello di intrigo e tensione caratteristici del protagonista. Il film è nettamente indirizzato sull’azione, sul movimento, sulle acrobazie, aspetti che finiscono col gravare sulla storia, della quale si comprende ben poco. Molti sono gli interrogativi che non trovano risposta, divenendo lacune incomprensibili per tutti coloro che non hanno familiarità con il videogame. Fassbender è perfetto nel vestire i panni di Aguilar De Nerha, ma non debitamente valorizzato da un contorno poco dettagliato, e troppo legato ad un’azione quasi morbosa, eclissando in alcuni punti la narrazione. Kurzel dopo Macbeth, si trova a dirigere il suo terzo film, un progetto ambizioso e complesso, purtroppo non realizzato al massimo del suo potenziale. 
 
Giada Farrace

La luce sugli oceani

Giovedì 08 Settembre 2016 18:53
In un piccola isola australiana, dove un faro fa le veci di un Dio, due novelli Adamo ed Eva conducono una vita felice. L’amore sembra essere l’unica via e naturalmente cresce il desiderio di famiglia. Ma quando la realtà prende il sopravvento e la morte bussa alla porta, gli equilibri della giovane coppia si frantumano, portando conseguenze devastanti sulle coscienze e sviluppi inaspettati. 
E’ la storia di Tom (Michael Fassbender) e Isabel (Alicia Vikander), lui guardiano di un faro tra l’oceano australe e quello indiano, lei ragazza della limitrofa terra ferma. Tom porta nel cuore le ferite della Grande Guerra. Personaggio morale e leale, intraprende una battaglia per la verità e promette a se stesso di non procurare più del male. Isabel è la vita stessa, raggiante come il sole del mattino. La loro unione è in sintesi il manifesto del melodramma perfetto, capace di scaldare e struggere allo stesso tempo. 
Questa storia senza tempo ha affascinato Derek Cianfrance, regista del toccante Blu Valentine (2010). L’autore statunitense ha deciso di adattare il romanzo di M.L. Stedman (2012), portandolo dal libro direttamente sul grande schermo del concorso di Venezia 2016. 
 
Addentrandoci nella narrazione, sceneggiata dello stesso Cianfrance, compaiono anche una scialuppa e dei naufraghi. Senza entrare nei dettagli, quest’ultimi modificheranno indelebilmente la vita e le verità dei due sposi. Sui conflitti interiori virerà bruscamente The light between oceans, diventando così il pretesto per raccontare i tormenti dell’animo umano.
 
La luce del faro che divide i due oceani, che porta in salvo i marinai e li conduce dalle proprie famiglie, non porta in salvo il regista. Azzarda relativamente e rimane in una zona confort. Poca luce e tante ombre invadono il racconto, disseminato da improbabili e discutibili snodi narrativi. Punti di rottura che affossano i protagonisti in ripetuti sensi di colpa. Si viaggia sempre a braccetto con la depressione e la claustrofobia. In questa movimentazione d’anime, i momenti di svolta scioccano solo per la poca accuratezza con la quale vengono gestiti. 
Nelle colpe e nei perdoni si inciampa troppo spesso da perdere di vista la coerenza narrativa e del messaggio.
 
Il film è sulla bocca di tutti per la liaison d’amore, nata proprio sul set, tra i due protagonisti: la vincitrice dell’Oscar 2016 come miglior attrice non protagonista Alicia Vikander (Danish Girl) e l’affascinate Michael Fassbender (Shame – Coppa Volpi miglior attore Venezia 2011). 
Entrambe risultano un po’ piatti. Sofferta e poco altro la giovane attrice svedese, poco espressivo nell’esprimere la fedeltà alle proprie decisioni il talentuoso attore tedesco. Forse hanno tenuto tutte per loro le tumultuose emozioni che l’amore scaturisce, non riuscendo così a portare sullo schermo le salite e le discese di un sentimento universale. Magari lo stesso regista non è riuscito a spiegare e sviscerare con efficacia, cosa che gli era riuscita nei suoi lavori precedenti, gli intrecci arruffati e quotidiani che l’amore comporta. 
 
La musica composta dal maestro A. Desplat è irruente e non aiuta, aggravando lo stato delle cose. 
 
The light between oceans esce in Italia i primi di marzo, a ridosso di San Valentino e dell’assegnazione degli Oscar. Questa crudele novella fa urlare all’occasione sprecata. Si perché, la sopraccitata storia di vita ci sarebbe potuta entrare nel cuore, accomodandoci e compiacendoci, solo se avesse osato quel giusto, entrando così di diritto nel palmares delle indimenticabili storie d’amore della finzione cinematografica. 
 
David Siena

Alien Covenant

Giovedì 11 Maggio 2017 13:05

Trentotto anni fa, lo stesso regista Ridley Scott, esplorava le remote regioni dello spazio attraverso le disavventure della nave Nostromo. Prima ancora di introdurre l’umanità dentro le pagine scritte da Philip K. Dick con Bladerunner (1982), portò a compimento Alien (1978), introducendo nell’immaginario collettivo una nuova concezione di fantascienza, costruendo androidi capaci di empatia e creature eleganti, feroci e letali. Disegnato dall’artista surreale svizzero H.R. Giger a cui dobbiamo le note sembianze disturbanti, organiche e allo stesso tempo impregnate di erotismo della creatura e sceneggiato dal geniale Dan O’Bannon, che dichiarò di aver “rubato” l’idea per il soggetto “non in particolare a qualcuno ma un po’ a tutti” (e di quei ‘tutti’ ricordiamo ‘Il pianeta proibito’ e ‘Terrore nello spazio’), Alien ha avuto una discendenza di tre riconosciuti seguiti e due prequel, Prometheus (2012) e la continuazione Alien Covenant (2017). La missione di colonizzazione della Covenant, che con sé trasporta il futuro dell’umanità, viene bruscamente fermata da una anomalia. L’equipaggio, costretto ad interrompere il riposo accelerato indotto dal crio-sonno, perde il suo capitano. Daniels (Katherine Waterston), moglie del compianto capitano ed  esperta di terraformazione, assieme al resto della crew è costretta ad accettare come nuovo comandante Cristopher Oram (Billy Curdup) avventato, ingenuo e pieno di sé. Davanti alla prospettiva di trascorrere anni per riprendere una rotta sicura, scelgono di accorciare il viaggio e atterrare su di un pianeta abitabile, un paradiso apparentemente incontaminato, mossa che si rivelerà azzardata. Al centro della vicenda l’androide interpretato da Michael Fassbender, affettato, efficiente, l’occhio filosofico all’interno dell’impianto  scenico. Diverso dall’infido Ash del primo film, meno umano di Bishop eroe del secondo Aliens: Scontro Finale, ci mostra due facce diverse. Il film gode di una inconfondibile fotografia, l’estetica di Alien non può essere standardizzata o confusa con quella di nessuna altra saga. L’orrore già provato, la pelle d’oca già sentita, l’inevitabile sensazione di tensione che con una dinamica familiare ci riporta indietro di anni, genera una confusa sensazione di dèjà vu, mescolanza di nostalgia ed effetto remake. Manca un personaggio chiave con la forza trascinante che Sigourney Weaver, metteva nel ruolo di Ripley, non si riesce a provare una vera empatia per nessuno dei protagonisti umani, se non una simpatia per Daniels che ricorda per look e caparbietà la nostra ‘Astro’Samantha Cristoforetti. La creature stesse, soffrono della mancanza di perfezione creata dai pupazzi di Rambaldi, resa troppo veloce dalla CGi: nei movimenti meno ‘aracnide’ e più ‘dinosauro’. Nonostante questi difetti, il film riesce, attraverso geniali citazioni e mantenendo il mistero sulle figure degli Ingegneri, nella sua missione:  dare una efficace spiegazione riguardo le origini di questo essere “non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità”. 

Francesca Tulli