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EL-STOUH (LES TERRASSES)

Giovedì 12 Settembre 2013 21:12
“Sappiamo che il cinema non può cambiare il mondo, ma sappiamo anche che il cinema può crearlo un mondo”. Si era espresso così Bernardo Bertolucci durante la cerimonia d’apertura di questa 70esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Quella frase conteneva la disillusione seguita a quel ’68 cinematografico da lui vissuto in prima linea, quando era forte fra gli autori (parliamo degli europei, ma soprattutto dei francesi) l’idea che fare cinema fosse, in prima istanza, un fatto politico, libertario, un fatto importante insomma. 
Merzak Allouache, algerino naturalizzato francese, quell’illusione non l’ha persa. Lo ha dimostrato con le dure panoramiche sul suo paese, offerte dai film precedenti (da “L’autre monde” 2001 a “Tamanrasset” 2008), quando vivere l’Algeria con una telecamera in mano significava rischiare in prima persona; ce lo dimostra, oggi, con questo film di fiction che prende spunto dalla realtà sociale algerina e dalla violenza di cui è intrisa.
Les terrasses altro non è che il racconto, e la critica, di una società che, lungi dall’essere sulla strada della ricostruzione (politica, culturale, morale), è intrinsecamente malata, pur non riconoscendosi in quanto tale. Allouache lo sottolinea con le immagini e con le parole “L’algeria sembra paradossalmente serena, ripiegata su sé stessa, quasi indifferente. Ma la realtà è un’altra”.
Dal lungomare di Algeri, che appare nella prima sequenza, la cinepresa si sposta (o meglio, si eleva) per abbracciare i diversi quartieri e narrare cinque storie che si sviluppano in un percorso temporale scandito dai cinque richiami giornalieri del muezzin. La visuale si alza e riprende i personaggi dall’alto di terrazze divenute vere e proprie abitazioni, location scelte come simbolo del cambiamento della vita nella città, luoghi di appropriazione illegale e incontrollata, spazi in cui scoppiano le contraddizioni di una società violenta, caotica, dimentica di un passato rivoluzionario e della sua regale bellezza.
Gli episodi mostrano situazioni al limite, caricate della forza della finzione, volutamente paradossali. Vediamo, quindi, sfilare dinnanzi ai nostri occhi: un vecchio semi-impazzito, rinchiuso in una gabbia, a cui si avvicina solo la nipotina, nella sua giovinezza innocente; una ragazza vittima di violenze domestiche che invia il proprio urlo di dolore alla sua dirimpettaia, la quale sperimenta la forza di un amore omosessuale vietato. Ed ancora: un padrone di casa spietato che non si fa scrupoli a sfrattare una famiglia dalla terrazza che sostiene appartenergli; un sedicente Imam che sfrutta la credulità popolare per estorcere denaro; un omicidio commesso per chissà quale regolazione di conti.
Da queste terrazze, da questi quartieri, già scenario cinematografico del maestro Pontecorvo, si alza la voce di un regista che non ha paura di dichiararsi pessimista, sia in merito alla sua società violenta - prodotto di decenni di forte instabilità politica seguita all’indipendenza - sia in merito ad un cinema che rischia di morire, con la chiusura delle sale e il totale disinteresse della popolazione algerina verso di esso. Eppure il suo pessimismo è motore che muove l’azione del filmare, è atto di resistenza nei confronti di un movimento di violenza e di cancellazione della memoria storica che uccide l’umanità insieme ai quartieri da essa abitati. Pochi, incantevoli sprazzi di luce provengono dallo scambio intimo fra alcuni protagonisti, dalla complicità tra persone sconosciute, dalla musica, allegro collante d’amicizia, a dimostrazione che un residuo di umanità sospeso fra i palazzi ed il cielo permette al mondo di non implodere. 
Un tale atto di responsabilità nei confronti della missione politica del cinema potrà non ricevere alcun premio (come di fatto è stato nella kermesse veneziana che si è appena conclusa) ma rappresenta uno strumento, ben costruito, di indubbio valore sociale e storico, sia per il pubblico algerino che per quello internazionale. 
 
Elisa Fiorucci