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3 Days in Quiberon

Domenica 25 Febbraio 2018 12:21
Francia, Bretagna, 1981 ed esattamente Quiberon. Un nostalgico bianco e nero ci introduce nel film scritto e diretto dalla regista tedesca Emily Atef, che porta sullo schermo l’ultima amara intervista all’attrice Romy Schneider. In concorso alla Berlinale edizione 68, 3 days in Quiberon è un riflettore puntato sull’iconica principessa Sissi, vista attraverso lo sguardo di amici e di un giornalista detrattore. La bicromia usata mette in risalto i chiari scuri della donna, riagganciandosi fedelmente al reportage fotografico scattato in una spa durante la sua disintossicazione dall’alcol. Il book di foto fu realizzato da Robert Lebeck (Charly Hübner) e l’intervista “manipolata” fu opera del giornalista Stern Michael Jürgs (Robert Gwisdek). Nella lussuosa struttura era presente anche l’amica di sempre Hilde Fritsch (Birgit Minichmayr); una via di fuga per Romy, che con lei al suo fianco riuscì a limitare le sincere risposte, che invece si aspettava l’agguerrito reporter. In questi 3 giorni l’attrice ritrovò un po’ se stessa, ma i demoni che l’affliggevano la portarono, di lì a poco, verso una deriva di autodistruzione senza ritorno. Romy perse la vita un anno dopo gli avvenimenti descritti in questo film, nel Maggio del 1982, all’età di 44 anni. Tra le sue opere più memorabili, oltre ad essere la principessa per antonomasia, ricordiamo: L’enfer (1964), L’importante è amare (1975) e la Morte in diretta (1980).
 
Emily Atef confeziona un vero omaggio a Romy Schneider. La sua è un’opera delicata. Un ritratto intimo, lontano dai riflettori. Non si limita a mettere in scena lo sfavillio dell’attrice, ma evidenzia anche il tormento, la depressione e l’ansia che la affliggono. Lo fa con eleganza e garbo. Con la stessa sensibilità che contraddistingue la donna Schneider. Egregia la performance di Marie Baumer (Il falsario - Operazione Bernhard), che dà voce e corpo alla splendida Romy. La sua è un’interpretazione intensa ed allo stesso tempo raffinata.
 
Lo sguardo della regista gira intorno al carisma e allo splendore della protagonista. Ne mette in risalto il fascino in contrapposizione con il male che la sconfigge internamente. Tutte le inquadrature hanno un significato ben definito e non lasciano nulla al caso. Immortalate nella splendido contrasto tra i due colori del bene e del male.
Non ci sono particolari novità stilistiche. E anche se i cliché sono presenti nella narrazione, tanto quanto la grazia infinita dell’attrice austriaca, il film non perde mai mordente. La sua schietta linearità non è un difetto, ma anzi, è la maniera migliore per entrare nelle pieghe di un racconto breve ma intenso, che punta alla sincerità, tralasciando giustamente orpelli visionari e prese di posizione. Descrizione spietata di un dolore finito in tragedia di lì a poco, dove la bella muore per mano della bestia (interiore). Ingiustamente. Il ricordo è franco e leale. La regista restituisce ai noi osservatori una donna reale con un mezzo di finzione, dove quest’ultima falsità si spera possa non finire mai. L’immortalità della bellezza è descritta con amabilità e morbidezza.
 
David Siena